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IN LIBRERIA

08 aprile 2008

Il bar di paese è stato la mia scuola


Domenica 6 aprile sulla gazzetta di Reggio è uscita questa intervista a Daniele Benati, curata da Chiara Cabassa - mi è parsa interessante, e la posto qui...buona lettura.

"Il bar di paese è stato la mia scuola tra le partite a carte e quelle a biliardo ho imparato le cose che contano davvero. Ho tradotto Beckett in dialetto per dimostrare la dignit� letteraria e la profondit�à della lingua parlata"


di Chiara Cabassa


D.B.

«Tutto quello che ti capiterà nella vita dipende da ci� che hai vissuto tra i 14 e i 16 anni. E
avevo 14 anni quando mio fratello, diciottenne, port� a casa un Lp di Bob Dylan. Tutto . iniziato in quel momento perch. quel disco mi ha aperto un mondo è stata la curiosità farmi tradurre le canzoni di Dylan, e ogni volta che riuscivo era eccezionale... Anche lo stimolo a leggere e a
scrivere, oltre che a tradurre, arrivato da Dylan: poi, dalla fine degli anni '70, è stata la
volta della letteratura giovanilistica a partire da Kerouac. Ma rivendico il ruolo del rock che ha dilatato l'età oggi i quindicenni ascoltano Vasco Rossi che ha superato i cinquanta. Era impensabile che io, a 15 anni, ascoltassi Rabagliati».

Dal suo elogio dell'adolescenza si deduce che per lei non � stato un periodo particolarmente travagliato.

«E' l'età migliore perché scopri che nella vita ci sono tante cose belle: la musica, la
letteratura, il cinema, il calcio. Mi ricordo ancora oggi quando vidi "Blow Up" di Antonioni:
non ci avevo capito niente ma avevo intuito che c'era qualcosa da capire. Poi il primo viaggio: a 17 anni, in autostop, a Parigi e a Londra. A spingermi, la curiosità per la cultura anglosassone».

A scuola non sarà stato il secchione di turno...
«Assolutamente no. Ho fatto il liceo scientifico ma se sono sempre stato promosso lo
devo al fatto che avevo buoni amici: in particolare amiche che mi passavano i compiti e
cercavano di farmi studiare. Ma in quel momento lo studio non era tra i miei interessi
principali. Per il resto devo dire che del liceo ho ricordi belli ma extrascolastici: dagli
scherzi ai prof alle ragazze. Insomma, facevo l'asino e non me ne sono pentito: . peggio
farlo a cinquant'anni. Poi, all'Università, la svolta: mi sono laureato in lingua e letteratura
inglese e la scala di interessi è cambiata».

La strada insomma l'ha trovata, ma non � stato poi così semplice.

«Da giovane ho cincischiato un po ', per scarsa fiducia nelle mie capacità, ma anche
perché letteratura e scrittura non erano le mie prime esigenze. Poi capisci che o ci
molli o ammetti che quella è la tua strada: ma se scegli la seconda ipotesi la vita si complica.
Probabilmente, se non ci fosse un destino, certe cose non accadrebbero neppure».
Lei docente universitario e scrittore, suo fratello Davide importante pittore...tutto merito del destino?

«Siamo nati e vissuti a Masone all'Abbate, una stazione di posta che un secolo fa fu
comprata dalla mia famiglia: mio padre avrebbe voluto studiare ma i casi della vita
l'hanno portato a fare il fornaio; mia madre ricamava ma era brava a dipingere. E
in casa qualche libro c'era: oltre ai testi di medicina di mio zio, una libreria era occupata
dall'enciclopedia di narrativa straniera della Utet».

Ma la sua vera scuola, partendo dal presupposto che il liceo � stata una bella gita durata cinque anni, qual � stata?

«Il bar di Masone. Dai 13 ai 28 anni, giocando a carte o al biliardo e ascoltando la gente, è stato lì che ho imparato le cose che contano».

Dal bar di Masone ad Harvard: e in mezzo?

«La mia carriera fino a un certo punto . stata piuttosto sgangherata. Dopo la laurea e
il servizio militare, ho lavorato, con mille virgolette, per due anni nell'area management
, prima al maglificio Sima poi alle Ceramiche Ragno. Ma mi sentivo falso, quindi mi sono licenziato per andare a insegnare alle scuole medie: l'obiettivo era trovare il tempo per scrivere. La
svolta tra il 1984 e il 1985 quando ho vinto una borsa di studio per andare in Irlanda,
che è diventata la mia seconda patria al punto che ho fatto di tutto per tornarci: nel '92 e nel `93 ho poi insegnato in un'Università irlandese. Nel '95 ero a Boston; in America ho insegnato sette
anni: quattro all'Università statale, uno ad Harvard e due al Mit dove sono stato il primo e finora unico insegnante d'italiano. Dal dicembre del 2006 insegno all'Università di Budapest. E' una città da un lato americana, dall'altro legata a un recente passato: il suo fascino sta nella convivenza
di queste due realtà».
E in lei come convivono la scelta di insegnare all'estero con l'assoluta fedeltà alle origini padane?

«E' un imprinting che non voglio perdere: più che reggiano mi sento emiliano. L'Emilia
è bella, e nelle fotografie di Ghirri questo concetto è espresso benissimo. Senza dimenticare
che l'Emilia diventa spesso un "altrove": perché anche quando racconto di ambienti irlandesi o americani, in realtà è l'Emilia che descrivo. Insomma, un piede lo tengo sempre lì, pur viaggiando. La mia è una vita instabile con i vantaggi e gli svantaggi che porta con sé, è bello partire sapendo che poi torni, ma a perderci è la scrittura che richiede stabilità».

Parlando di scrittura, qual � stato l'incontro fondamentale?
«Quello con Gianni Celati. Intanto perché è una delle "menti migliori", e poi perché mi ha fatto capire che la letteratura non è necessariamente scrivere bene, ma trovare una tua voce. Io per
esempio sono cresciuto in un ambiente contadino dove si parlava in dialetto e questo, a
scuola, era un limite: per tre volte sono stato rimandato in italiano. Celati mi ha insegnato
che i difetti non vanno nascosti ma ostentati».
Celati si �è subito innamorato della sua scrittura?

«Non proprio. Ho fatto di tutto per incontrarlo, poi gli ho fatto avere un mio racconto...Dopo nove mesi di silenzio l'ho cercato e lui mi ha sbriciolato bocciando il mio scritto. Poi, per�, la curiosità
è diventata reciproca: Celati mi ha presentato a Ermanno Cavazzoni e abbiamo creato "Il Semplice", rivista di ricerca letteraria alla quale hanno partecipato Ugo Cornia e Paolo
Nori, quest'ultimo arrivato giusto per l'ultimo numero.
L'esperienza era finita, ma si era creato un gruppo di "scrittori emiliani"».

Un elemento che caratterizza la vostra letteratura?

«Faccio un nome: Raffaello Baldini. E' lui il Papa della letteratura che piace a noi. Il
suo è un lavoro linguistico che viene dai più sottovalutato perché ricrea i difetti della
lingua parlata, in realtà è un''operazione sofisticata. Nel 2000 ho curato la versione americana di un suo monologo teatrale, "Carta Canta", nella convinzione che sia l'equivalente italiano di Beckett, considerato uno scrittore cervellotico. E nel '97 per il Rec, al teatro Valli, partecipando
a "Scrittori che leggono scrittori" scelsi Baldini».

Lei ha anche tradotto Beckett in dialetto...

«L'ho fatto per dimostrare la dignità letteraria del dialetto che dietro la sua concretezza, per esempio non presenta parole astratte, nasconde un'incredibile profondità. Quando
è la voce a imporre la lingua, allora non ha più senso parlare di correttezza o scorrettezza
grammaticale».

Cosa contraddistingue invece la letteratura padana?
«Diciamo che c'é la letteratura normale (vedi quella di Bevilacqua) e quella un po'
da pazzi, la nostra: qui prevale un forte elemento di interesse per il mondo "distorto",
si tratta di guardare alla realtà attraverso i suoi personaggi, abolendo la figura dell'autore
e la pretesa che si possa dare una visione oggettiva della realtà. E' un modo solitario di guardare alle cose che ti fa incontrare per strada altri sbandati solitari».

E' follia padana?

«In realtà è umorismo: la cosa più umana che ci sia, ma anche la più difficile da definire. Mi piace pensare alla letteratura italiana per aree geografiche: se i padani hanno familiarità con l'oralità, quello che appartiene alle aree siciliana e sarda è da sempre un linguaggio colto».

Tragico e brillante: un altro binomio ricorrente.

«Il comico è l'elemento più serio della letteratura e, come dice Learco Pignagnoli "se in uno scritto non c'é niente di comico vuol dire che non c'é niente di tragico e se non c'. niente di tragico
che valore vuoi che abbia?". Il comico . un altro tratto caratteristico della letteratura
padana: non il cabaret ma il comico che sprigiona dalle capriole che fa la lingua. D'altra
parte il comico è anche quello che salva la letteratura dalla seriosità finta, quella di cui sono pieni i libri di Moravia: leggi due righe e hai l'impressione del bluff, come se fosse stata spruzzata un
po' di puzza culturale».
Com'� cambiato il mondo editoriale?

«Negli anni '70 si faceva ricerca letteraria, oggi agli editori interessa solo vendere. Quindici anni dopo è successo nell'editoria quello che era accaduto per il mercato discografico: gli editori hanno capito che a comprare libri sono i giovani e, ciclicamente, lanciano fenomeni che, da "Porci
con le ali" in poi, parlano tutti dello stesso tema».

Se dovesse portare nella fantomatica isola un suo libro, quale sceglierebbe?

«Cani dell'Inferno": contiene la trasfigurazione di una mia sensazione dell'America
che diventa un "altrove": non si sa se sia Inferno, Paradiso o Purgatorio. E' un libro sull'America
ma che non avrei potuto scrivere se non fossi tornato in Italia».
Voglia d'America?

«Spesso. Ho nostalgia di Boston e di New Orleans. E in Tv, faccio il pieno di telefilm polizieschi cercando le strade e le case di Boston».

Da molti, lei � conosciuto per avere curato le "Opere complete di Learco Pignagnoli. E' il suo alter ego?"
«Direi eteronimo... Learco Pignagnoli ha una vita sua. Lui . nato a Campogalliano e
io a Masone. Diciamo che gli faccio dire le cose che, dette da me, potrebbero suonare
imbarazzanti... Con Ugo Cornia, Paolo Nori, Ermanno Cavazzoni e Marco Raffaini abbiamo
organizzato su di lui un finto convegno al Festival della Filosofia di Modena e alla
Cavallerizza: un trionfo».

L'ultima sfida?

«La rivista "L'Accalappiacani": l'obiettivo è aggregare persone che possano condividere
la nostra idea di letteratura. L'appuntamento è una volta al mese al cinema Cristallo:
arrivano da Milano, Firenze, Torino, hanno un'età tra i 20 e i 40 anni, e tanta voglia
di esprimersi».
Ma lei, che insegnante �?

«Non credo nella didattica ma nella personalità: puoi essere imbottito di didattica ma
se non sai comunicare è inutile. Il mio obiettivo è trasmettere la passione che io metto
in quello che insegno: è demoralizzante quando vedo che il messaggio non arriva, che
uno scrittore non provoca sussulti... Allora mi rifugio negli autori neutri. Per non rimanerci
troppo male».
Nel tempo libero, ammesso che ne abbia, cosa fa?

«Sono sempre stato appassionato di calcio: tifo Juventus e non mi perdo una partita.
Seguo anche la Nazionale, ma ci devono essere almeno sei juventini in campo. E poi,
una volta, suonavo la chitarra in una band "letteraria": ci chiamavamo I Fagiani...».
Bob Dylan apprezzerebbe.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

si, interessante.
mi fa piacere che uno scrittore, docente universitario, che ha insegnato, e insegna in importanti unversità nel mondo, riconosca che al 'bar' si può conoscere e imparare.
Anche per me da giovane adolescente e ragazzo il bar di periferia è stato un punto di riferimento.

E anche oggi, anche se in un contesto diverso, d'altra parte ogni epoca ha la sua tipicità, come la precedente intervista a nadiolnda, conferma che nei luoghi d'incontro c'è sempre scambio di conoscenza. Qualcosa si impara. E chi sa scrivere, sa trarne anche spunto per i loro libri.

Gisy ha detto...

Credo che "l'alta filosofia" qualunque sia prenda veramente spunto dalle quotidiane vicende umane - è questo che "fa scrivere" e fa "sognare" "piangere" più di sicuro che il concetto di un concetto.

Mi spiace che l'intervista a ndiolinda non sia stata commentata, perché dice cose veramente interessanti, come il fatto di inseguire negli ultimi anni l'avatar di un avatar. Creando una grande insoddisfazione generale.
Ma credo lo riprenderò a parte.
I post troppo lunghi li leggono in pochi anche se sono interessanti. va così.

Anonimo ha detto...

Il riferimento a Linda Susan Boreman (aka Linda Lovelace) mi aveva un pò turbato... la malizia non è stata ben ripagata, per lei.
Alla prima occasione utile butto un occhio sul libro, però. Ho giusto un bel pò di tempo da far passare e sono indietro come lettore.
Ciao!
ps: Laura!!! Un ponte di saluti da Genova fino a Roma! Altro che grandi opere. bacioni!!